In difesa della scuola, contro i “rivoluzionari” del digitale.

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Quale presente viviamo e quale futuro costruiamo, se il nostro sguardo non è proteso verso la storia che – come scriveva Cicerone nel De Oratore (II,9) – «è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, messaggera dell’antichità»? In che direzione la fiducia nel progresso e nella tecnologia sta portando l’umanità? L’innovazione è sempre sinonimo di progresso?

Una serie di riflessioni sul tema della cosiddetta “rivoluzione digitale”, che invade sempre più profondamente ogni aspetto della società contemporanea, compreso il mondo della scuola e dell’università, sono affrontate dal Prof. Carmelo Occhipinti, docente di Museologia e Storia della critica d’arte all’Università di Roma “Tor Vergata”, nel testo «In difesa della scuola. Contro i “rivoluzionari” del digitale» da lui redatto durante la quarantena nei mesi di marzo e aprile 2020 per la Collana didattica Horti Hesperidum (queste riflessioni sono state condivise con gli studenti del Master post-universitario in «Nuove tecnologie per la comunicazione, il cultural management e la didattica della storia dell’arte», da lui coordinato presso il Dipartimento di Studi letterari, filosofici e di Storia dell’arte dell’Università di Roma “Tor Vergata”): https://www.youtube.com/watch?v=08VDVzstN3c.

L’uso massivo delle piattaforme digitali, accelerato anche dall’emergenza sanitaria, se da una parte ha annullato ogni distanza fornendoci la possibilità di ritrovarci ovunque “virtualmente connessi”, dall’altra ha contribuito al progressivo impoverimento della nostra capacità di leggere, di scrivere, di interpretare criticamente il presente, di relazionarci con gli altri e con la realtà che ci circonda, che oggi più che mai è “dematerializzata” sia dal punto di vista sociale che lavorativo. Anche le fondamenta della didattica, ereditate dal Medioevo, sono state scosse dalla pandemia e la “didattica a distanza”, improvvisata per necessità, alterando le caratteristiche dell’ambiente di apprendimento, ha giocato un ruolo di ulteriore disorientamento sociale, oltre che culturale, nelle giovani generazioni, private dell’esperienza relazionale relativa alla condivisione degli spazi e allo sviluppo della collaborazione reciproca, che sono soltanto alcuni degli aspetti che concorrono alla formazione del “buon cittadino” nei delicatissimi anni dell’adolescenza. Il ruolo del docente, come guida e “facilitatore” dei processi di apprendimento, è più che mai divenuto complesso, volto alla ricerca di strategie atte, in primis, a mantenere desta l’attenzione che, dietro ai freddi schermi dei pc, è sollecitata da frequenti occasioni di distrazione…

Se volgiamo il nostro sguardo al passato – Historia magistra vitae insegnava Cicerone! – ci rendiamo conto che i modelli didattici che tutt’oggi utilizziamo nelle scuole e nelle università, sui quali per secoli è stata impostata la trasmissione dei saperi e su cui si è retta, di conseguenza, la società produttiva di grandi e piccole città europee, risalgono all’età medievale.

Il tradizionale modello di insegnamento basato sulla lezione frontale “ex cathedra”, per secoli è rimasto invariato: ne offre una rappresentazione il dipinto di Zanobi Strozzi della metà del Quattrocento, in cui San Tommaso d’Aquino, dottore della chiesa e padre della filosofia Scolastica, è seduto in cattedra durante una lezione universitaria, circondato dai suoi infervoratissimi allievi (religiosi e laici, tra i quali figura anche il re di Francia Luigi IX) che lo ascoltano seduti in atteggiamento di deferenza, coinvolti anche dalla gestualità del doctor. Questo è il modello di didattica “frontale” (detta “scolastica” perché veniva insegnata nelle «scholae», ovvero nelle università) che si è affermato nel Duecento, in cui il docente assume una posizione centrale e soprelevata rispetto agli allievi, che apprendono ascoltando in silenzio la parola del doctor e leggendo i libri, preziosi custodi del sapere; tale modello sopravvive ancor oggi – anche se considerato desueto – e convive con quello affermatosi in epoca carolingia quando, per contrastare il degrado culturale in cui l’Europa intera era precipitata, Carlo Magno decise di riformare le istituzioni educative incaricando Alcuino di York di fondare presso il palazzo imperiale di Aquisgrana la famosa Schola Palatina, il cui esempio sarebbe stato seguito in tutti i territori del Sacro Romano Impero. Una miniatura viennese dell’epoca ben esemplifica questo tipo di istruzione “prescolastica”, basata sul principio del coinvolgimento attivo degli allievi. La scena rappresenta lo scriptorium di una «schola» in cui il maestro è ritratto accanto ed allo stesso livello dei discenti, che imparano partecipando allo svolgimento di un’attività collettiva, come ad esempio la trascrizione dei testi antichi.

Zanobi Strozzi, La scuola di San Tommaso d’Aquino, Museo di San Marco Firenze (tra il 1446 e il 1454).

Se il modello di didattica frontale si impose nelle università in epoca medievale, quello relativo all’apprendimento interattivo e collaborativo di antica tradizione monastica (che oggi passa per essere il più innovativo, il cosiddetto cooperative learning) ha conservato una propria vitalità nelle botteghe di artisti e artigiani tra l’età medievale e l’età moderna, in cui gli allievi imparavano lavorando ed il Maestro non faceva alcuna differenza tra insegnare e lavorare, ed aveva la responsabilità di valorizzare le capacità di tutti e di seguirli nei percorsi che essi pian piano maturavano singolarmente (c’era chi si specializzava nel ritratto, chi nel paesaggio o nell’incisione, etc…). Tra Sei e Settecento poi, l’integrazione di questi due modi di fare didattica, nati nel passato per rispondere a esigenze storiche diverse, raggiunse esiti straordinariamente produttivi nelle Accademie. L’uno non escludeva l’altro ed assieme si integravano.

Il confronto tra queste modalità di didattica che abbiamo ereditato dal passato e che ancor oggi utilizziamo, può aiutarci a comprendere quanto siano limitanti certe prospettive moderne protese esclusivamente verso l’innovazione e il futuro. Guardare al passato, senza il quale non ci saremmo, ci fa aprire gli occhi sul mondo in cui viviamo, perché non è possibile comprendere o acquisire consapevolezza del nostro presente senza conoscere il nostro passato. Perdere il contatto con la nostra storia equivale a diventare orfani, a smarrire la nostra identità, la nostra bussola, a disorientarci e a non riconoscere chi siamo, da dove veniamo, in che punto ci troviamo e, soprattutto, dove stiamo andando. Nell’oggi c’è sia il “chi siamo stati” e il “chi saremo”, se riusciamo ad indossare gli occhiali corretti per mettere a fuoco il presente. A questo proposito, tornano tragicamente attuali le accoratissime parole di Gregorio di Tours, scritte nella sua Historia Francorum alla fine del VI secolo: «Vae diebus nostris, quia periit studium litterarum a nobis nec reperitur rethor in populis, qui gesta praesentia promulgare possit in paginis!» (Guai ai nostri giorni, perché a causa nostra è venuto meno l’amore per le lettere e non si trova fra la gente un retore che sia in grado di far conoscere per iscritto gli avvenimenti del presente!).

«Una così lucida consapevolezza nei confronti del proprio tempo riuscì ad assumere Gregorio di Tours – sottolinea Occhipinti – che oggi noi non sappiamo assumere nei confronti del nostro. Senza lo studio del passato, delle lettere, non solo ci precludiamo la comprensione del nostro presente, ma perdiamo anche la capacità di guardare in avanti, verso le future generazioni. La storia ritorna ed è un’illusione credere di essere al di fuori di essa e di poterla guardare come si guarda un panorama o uno spettacolo meraviglioso, da lontano, come se noi non ne facessimo parte. Ecco perché non è possibile innovare – continua – senza conoscere la storia e chi pretenda oggi di innovare senza avere una visione ampia del passato, rischia di non innovare niente e di produrre disastri come quelli che ha prodotto la cosiddetta rivoluzione digitale che minaccia di abbattersi sulla scuola e sull’università. Senza fraintendimenti, io sostengo l’utilizzo delle nuove tecnologie per applicarle allo studio del passato, ma avere la memoria corta non permette di guardare molto in avanti; sarebbe auspicabile che agli umanisti fosse restituito un po’ di credito in seno alla nostra moderna società. Accettare che siano gli ingegneri informatici a stabilire secondo quali modalità e metodologie di didattica debba essere formata la società del futuro, significa condannare la nostra civiltà a morte».

Senza la nostra storia, senza i maestri, senza la cultura, senza la lettura, senza la tradizione, l’umanità perde la direzione, diventa più fragile e più facilmente manipolabile. L’isolamento e l’estraniamento dalla realtà disumanizza l’essere umano. Siamo forse sull’orlo di un precipizio?

Marina Manuela Cafà

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