Un robot a Venezia: avanguardia tecnologica alla Biennale di Architettura

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di Ilenia Pennacchi

«Una giungla abitata da strane ed affascinanti creature, dove si possa fare l’esperienza di un mondo che cambia mentre sta cambiando». Così l’architetto Alessandro Melis ha definito il Padiglione Italia, da lui curato, alla 17esima edizione della Biennale di Architettura di Venezia. 

Certamente, dalle sue parole, era difficile immaginare che tra queste creature potesse esserci un robot umanoide, capace di interagire con gli esseri umani presenti e con i progetti esposti. 

Si è trattato di un esperimento condotto da un gruppo di ricercatori dell’Istituto Italiano di Tecnologia, consistito nel telecomandare, a chilometri di distanza, un automa all’interno delle sale della Biennale. L’androide iClub3, infatti, ha visitato la mostra al posto dell’ingegnere Daniele Pucci, coordinatore della squadra Artificial and Mechanical Intelligence, il quale è rimasto comodamente nel suo laboratorio a Genova mentre il suo avatar era a passeggio in quel di Venezia. 

Come è stato possibile? Il robot replica in tempo reale i comandi che l’operatore gli impartisce grazie a una tuta sensorizzata, chiamata iFeel. Questa armatura contemporanea è in grado di creare un legame simbiotico tra l’umano e l’umanoide: essa, infatti, traccia il movimento corporeo del ricercatore, il quale comunica al robot l’input per lo spostamento camminando sul posto all’interno di una piattaforma di realtà virtuale, e fornisce il feedback aptico, ovvero la riproduzione nell’operatore delle sensazioni tattili che l’avatar esperisce. Inoltre, il robot può mostrare sul proprio volto-display le espressioni facciali dell’umano, tracciate tramite un visore, e catturare attraverso gli occhi-telecamera tutto ciò che vede, trasferendo quanto fruito al compagno di visita, che assiste da remoto. Ma non basta: l’umanoide è persino in grado di relazionarsi verbalmente con chi incontra, grazie a un sistema di registrazione che riproduce fedelmente la voce dell’operatore. Dunque, iClub3ha visitato il padiglione come se fosse una persona, trasmettendo alla cabina di regia le informazioni con un ritardo di soli 25 millisecondi.

L’obiettivo dell’esperimento, spiega l’ingegnere Pucci in un’intervista rilasciata al giornale GenovaQuotidiana è: «creare avatar robotici per esseri umani in grado di favorire l’interazione con il mondo reale da remoto. […] Emergenze come la recente pandemia ci insegnano che i sistemi avanzati di tele-presenza possono diventare necessari in poco tempo e fare la differenza in diversi campi, come la sanità e la logistica; immaginiamo che gli avatar umanoidi potranno consentire anche alle persone con disabilità di lavorare e compiere azioni nel mondo reale.»

Ma perché è stata scelta la Biennale di Venezia come luogo in cui presentare questo progetto? La risposta arriva da Onofrio Cutaia, direttore generale della sezione “Creatività contemporanea” presso il Ministero della Cultura, il quale ha ritenuto questa un’ottima occasione per promuovere il patrimonio culturale italiano attraverso nuove forme di comunicazione, come si legge in una nota dell’Agenzia Ansa. 

L’esperimento, indubbiamente straordinario dal punto di vista tecnologico, apre degli interrogativi sull’impatto che uno sviluppo orientato in questa direzione potrebbe avere sulla fruizione dei beni culturali e non solo. La Biennale di Architettura di Venezia è una mostra e, come tale, è strutturata: abbiamo, dunque, pannelli didattici, luci orientate in una specifica direzione, progetti che costituiscono il fulcro stesso dell’esposizione e che in quel dato spazio assumono significato. Proviamo ora ad immaginare un museo nelle cui sale passeggino robot umanoidi intenti ad osservare i dipinti per poi restituire l’immagine all’altro visitatore, quello umano, che nel frattempo cammina su una sorta di tapis-roulant nel salotto di casa con addosso una tuta da astronauta. È chiaramente un’immagine provocatoria, che per molteplici e ovvie ragioni si fa fatica a considerare plausibile o anche solo futuribile, ma se un giorno potesse davvero accadere? L’opera d’arte, d’architettura, lo spettacolo teatrale, il concerto allo stadio, sarebbero davvero gli stessi se mediati da un avatar? Ogni cosa acquista senso e valore in base al contesto in cui si trova, ma anche grazie all’interazione che nasce con chi la osserva, allo scambio unico tra il singolo visitatore e ciò che è presentato. L’immagine, per quanto fedele, riprodotta a distanza attraverso mezzi iper-tecnologici può avere la stessa potenza? Il ruolo sociale del museo, o della mostra temporanea, come spazio di studio, di svago e di incontro come si trasformerebbe? Senza cadere nel filosofico, c’è da chiedersi: quanto conterà in futuro il nostro esistere in un luogo, se di fatto saremo da un’altra parte?

Queste domande, negli ultimi due anni segnati dalla pandemia provocata dal virus Sars-CoV-2, hanno affollato le nostre menti innumerevoli volte ed è stato introdotto ogni mezzo tecnologico necessario per cercare di perdere meno vita possibile. Cosa accadrebbe, però, se la tecnologia non servisse più solo a migliorarci e a permetterci di sopravvivere in momenti di emergenza, ma si trasformasse nel futuro più comodo e soddisfacente a cui aspirare? 

Certamente, rispondere a queste domande è impossibile ora che il mondo è ancora simile a come lo ricordiamo; tuttavia, proteggere l’unicità del nostro essere umani, e i prodotti che ne derivano, sarà una sfida con cui dovremo fare i conti. 

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