di Giusy Longo
Quante volte, dall’inizio del lockdown, ci siamo sentiti abulici e rassegnati? L’inerzia forzata, il giusto imperativo per sopperire alla corrente situazione emergenziale, si è insinuata prepotentemente nelle nostre vite, divenendo un vero abito, assieme alla tuta sportiva o al pigiama. C’è chi, alla fine, si è lasciato lusingare da un’ovattata indolenza e chi, d’altra parte, ha visto rarefarsi sempre più l’essenza di una quotidianità di interazioni, di “affetti” leonardeschi.
Se si vive la vocazione per l’arte, non ci si lascia frenare, poiché l’immersione reiterata nei mirabili lasciti di pittori, scultori ed architetti educa a farsi trapassare dapprima dall’emotività, nella naturale reazione agli eventi, per cedere presto il posto alla sensibilità, il cui apporto presuppone un concorso intellettuale e attivo imprescindibile per elaborare l’emozione. Una dote preziosissima nel deflagrare di una realtà già preconizzata e in gestazione quando Walter Benjamin, nel 1936, pubblicò “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”.
Difatti, sebbene ormai frutti maturi dell’hi-tech, noi studiosi di storia dell’arte tendiamo a rifiutare il più possibile, per deformazione professionale, il potere immaginifico degli schermi: non siamo avidi consumatori di pixel, ma attenti fruitori del reale. Di conseguenza, sappiamo bene che per ovviare a siffatto impasse gnoseologico, è necessario scovare l’aura nell’inevitabile “iconificio digitale”, raccordandolo al contesto e alla storia dei suoi contenuti attraverso la lettura delle fonti storiografiche, attraverso il potere evocativo della parola.
Pensiamo, per esempio, a Francesco Algarotti, intellettuale, scrittore nonché influente tuttologo veneziano immerso nella Respublica literaria europea del Settecento. Forte di una icastica sagacia, corroborata dall’animo cosmopolita, Algarotti era solito cimentarsi in arditi quanto efficaci esercizi di ecfrasi, riuscendo vividamente a transustanziare i capolavori ammirati ai propri interlocutori. Emblematico, a tal proposito, è l’incontro con l’adoratissima “Madonna di San Girolamo” di Correggio, presso l’Accademia di Pittura di Parma e il commento suggestivo resone all’amico Anton Maria Zanetti, in una lettera del 1759: «Mi perdoni il divino ingegno di Raffaello, se guardando a quel dipinto, io gli ho rotto fede, e sono stato tentato di dire in secreto al Correggio: ‘tu solo mi piaci’». E proseguiva: «Spirano veramente quelle inimitabili figure, paion create non dipinte, né mai d’accanto a loro ti vorresti partire».
Immaginiamo Algarotti girovagare per la cittadina emiliana, entusiasta e attento. Restiamo ammaliati assieme a lui dinanzi all’affettuoso consesso di corpi sinuosi, dai volti tumidi e sereni, intrecciati nella contemplazione assorta del Bambino. A bilanciare il vigore muscolare e l’imponenza di San Girolamo sulla sinistra vi è, al lato opposto, la Maddalena, che, a mo’ di sorella maggiore, trova ristoro nel calore delle turgide carni infantili. Desta curiosità, tra l’altro, il vispo angioletto in basso che, schermatosi discretamente dall’idillio, sembra annusare il lacrimatoio della santa.
Balena l’aneddoto di Francesco Scannelli, il quale narrava come un altro celebre pittore, Guido Reni, considerasse vivi bambini i putti della Pala di San Giorgio dell’Allegri al punto da adorarli con dolcezza quasi paterna, chiedendo a coloro che fossero andati a visitarli se stessero crescendo bene: chissà se, anche durante questo periodo di clausura, quei putti sono cresciuti bene!
Che sussulto dovette pervadere lo scrittore veneziano, nel riportare all’amico come l’Italia corse il rischio di rimanere per sempre orba della tavola parmense, per poco non ceduta al re di Polonia nel 1756: essa, difatti, fu commissionata ad Allegri da Briseide Colla, vedova Bergonzi, nel 1528, per la chiesa di Sant’Antonio Abate, dove rimase esposta sino al 1749. Ben presto si sparse la voce che, per ultimare la chiesa, l’Abate ne concordò segretamente la vendita con il sovrano. Fortunatamente, il misfatto fu scampato grazie ad un moto di indignazione del popolo di Parma. Sebbene poi, nel 1756, l’opera fu acquisita dal Reale Infante di Spagna Filippo di Borbone, Algarotti esalò comunque un respiro di sollievo: meglio poterla apprezzare nelle collezioni ducali, malgrado il vistoso cambio di scena, piuttosto che perderla, svilendo quel variegato museo a cielo aperto incarnato dalla penisola italica intera.
Quando abbiamo smesso di interrogare i nostri avi e la tradizione? Per quale motivo abbiamo ceduto una sostanziosa porzione della curiosità per abbracciare il vuoto dell’accettazione del contingente, lasciando appassire pagine e pagine come necrologi di vite vissute e, come mai prima, mortifere?
Non possiamo essere oziosi, in quanto vivi, umani. Umberto Eco controbatterebbe che la pigrizia è prerogativa del testo. Dunque, a noi spetta, come attivi incubatori delle istanze della contemporaneità, aiutarlo a funzionare, rinnovarne il significato. E perché non farlo ripartendo proprio da Benjamin, provando però a fare un passo avanti, conferendo noi l’aura all’opera d’arte, qualunque essa sia.
Solo così, saremo capaci di rompere quel guscio di incomunicabilità, orpello con cui abbiamo convalidato, edulcorato e giustificato la rottura del dialogo col passato e in cui ci siamo rannicchiati, passivi, arrogandoci il privilegio di essere tanti torpidi “gattopardi” nel divenire del tempo.
Solo così, abbracciando questa consapevolezza, gli umanisti potranno tornare a salvare il mondo.